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19 agosto 2011

Il decreto truffa di Tremonti per svendere il Paese

LA MANOVRA. Ritorna l’articolo 23 bis della legge Fitto-Ronchi, abrogato dal referendum di giugno. In gioco centinaia di municipalizzate.

C'è una firma inconfondibile nelle norme contenute nell’articolo 4 della manovra anticrisi del governo, tramutata in decreto legge il 13 agosto scorso. Una mano che è possibile riconoscere con facilità e che riporta direttamente all’articolo 23 bis della legge Fitto-Ronchi, derivata, a sua volta, dalla finanziaria del 2009, firmata Giulio Tremonti. Un articolo che – come è noto – è stato abrogato con il voto del referendum del 12 e 13 giugno, il cui risultato è divenuto legge il 21 luglio scorso. Interi commi della norma respinta con il voto storico di ventisette milioni di italiani sono stati riversati all’interno dell’articolo della manovra che – paradossalmente – ha l’obiettivo di recepire il voto referendario. Un vero copia e incolla, che rivela l’intenzione del governo: tradire il voto popolare che a giugno aveva chiesto di fermare le privatizzazioni. Particolarmente significativo è il comma 32 che regola il «regime transitorio degli affidamenti» dei servizi pubblici locali che non rispettano, alla data dell’entrata in vigore, il dictat delle privatizzazioni imposto dal governo.

La norma, su questo punto, riprende sostanzialmente alla lettera quanto stabiliva il comma 8 dell’articolo 23 bis della legge Fitto-Ronchi, abrogato dal primo quesito referendario. Il decreto del 13 agosto scorso prevede che tutte le concessioni di servizi pubblici locali affidati direttamente decadano il 31 marzo 2012, «senza necessità di apposita deliberazione». Per capirci il passaggio si riferisce a tutti quei servizi locali oggi gestiti dai comuni, che la manovra economica vorrebbe affidare ai privati. Per ora l’acqua sarebbe esclusa, ma il provvedimento include parti strategiche come la gestione dei rifiuti o il trasporto pubblico locale. Con una particolarità che fa nascere più di un sospetto: gli intrecci societari nei gruppi multiutility (vedi il caso Acea) sono talmente fitti da permettere, indirettamente, l’ingresso dei privati anche nella gestione delle risorse idriche.

Il valore delle gestioni che il governo vuole cedere ai privati è milionario, un vero tesoro da spartire. Nel solo caso della romana Ama – la società oggi interamente pubblica che gestisce i rifiuti nella capitale – il valore della produzione nel 2009 sfiorava i 700 milioni di euro; il decreto del governo imporrebbe la cessione del 60 delle quote – e quindi del valore – ai privati. Cifre ben più alte possono essere raggiunte nel caso delle grandi società multiutility quotate in borsa. Hera, ad esempio, vanta un fatturato di 1,6 miliardi di euro, mentre la romana Acea Holding sfiora i 3 miliardi. Cifre che sommate – mettendo insieme le centinaia di aziende pubbliche del paese – fanno gola ai grandi gruppi multinazionali dei servizi, come le francesi Veolia e Suez. La mappa delle privatizzazioni che potrebbero derivare dalle norme del governo comprende l’intera penisola, isole incluse.

E non si tratta solo dei grandi gruppi industriali – spesso fortemente legati alla politica – ma di una miriade di piccole e grandi società, controllate dai municipi, che da anni gestiscono i nostri servizi locali. E c’è di tutto: ci sono i comuni virtuosi in grado di superare ampiamente gli obiettivi di legge della differenziata; sono comprese le municipalizzate compromesse, magari grazie alle pressioni dei tanti gruppi privati che ora si apprestano a spartirsi la grande torta. E ci sono anche quelle piccole realtà locali, spesso strettamente legate alle comunità cittadine, che sarà difficile vendere senza colpo ferire. Si tratta del cuore del sistema delle autonomie locali, un bene prezioso per un paese così particolare come l’Italia. C’è da aspettarsi ora la mobilitazione del popolo dei referendum, quella parte della società civile che ha portato alla vittoria dei due quesiti sull’acqua e sui servizi pubblici. In fondo la macchina delle sberle è ancora accesa.

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