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29 dicembre 2011

Un modello economico che deve cambiare

Sta finendo un anno difficile e tra pochi giorni se ne avvia un altro forse anche peggiore: grosse nubi si addensano sull’intera economia europea e sui nostri cieli, la crisi non demorde e da finanziaria e congiunturale si sta è trasformata in economica e recessiva, verso una vera e propria depressione.

La montagna del debito pubblico italiano, 1.900 miliardi di euro, non smette di crescere e l’assalto ai titoli di stato è forte e concentrico, i rendimenti salgono a dismisura e, nonostante la manovra di Monti, hanno toccato in questi giorni il 7%, significa in soldoni che per pagare gli interessi annuali occorrono 133 miliardi euro, una cifra assurda che rende ogni manovra del tutto inadeguata.

La situazione è ancor di più aggravata dalla crisi industriale e produttiva che sta colpendo l’intera Europa, anche la forte Germania inizia a scricchiolare e certo ciò preoccupa ancora maggiormente.

Da dove origina questa crisi? Per una grossa parte dalla forte concorrenza dei paesi esportatori asiatici che stanno letteralmente invadendo i nostri mercati con prodotti più competitivi, soprattutto nel prezzo; la seconda ragione in parte conseguente la prima, è la caduta della domanda a causa della crisi d’importanti settori industriali, in Italia l’indice della produzione segna ormai da due trimestri il negativo, il nostro sistema produttivo, ormai in una lunga fase di stagnazione, non riesce più a riconvertirsi con le mutate condizioni internazionali, come pure nel passato è avvenuto.

Ci sono problemi molto complessi alla base di questa situazione, ma non ne usciremo se non cambiando radicalmente il modello economico che ha fin qui dominato e che a parer mio, è la causa vera della crisi.

Un modello fondato su un enorme spreco di risorse economiche, ambientali e umane: l’Italia è vissuta negli ultimi vent’anni sul cemento e sui consumi finali, anzi sui principi di una società consumistica, nella quale le ragioni stesse per le quali si guadagna, si compra e si vende, non hanno più alcun senso, mentre il bene comune, la tutela della natura, il risparmio e la qualità della vita hanno perso tutto o quasi il loro valore.

La qualità dei beni di produzione è stata intenzionalmente dequalificata, la durata di prodotti come l’auto, gli elettrodomestici, il vestiario, qualunque oggetto, è stata commisurata alla sua più rapida obsolescenza e sostituzione; quel che si distingueva un tempo come “ qualità e affidabilità” è diventato sinonimo di “vecchio e superato”.

Nello stesso tempo, l’acqua, l’aria, il mare, le coste, le montagne, i fiumi, il patrimonio architettonico, la cultura, la bellezza, la solidarietà sociale, il bene comune, il pubblico sono stati abbandonati per un individualismo darwinista, per un egoismo di tutti contro tutti, del disinteresse verso lo Stato in nome dell’arrivismo e della scalata sociale, basta pensare a cosa in questo senso ha rappresentato come modello dominante il berlusconimo in tutte le sue variabili.

Quest’andazzo ha provocato l’implosione economica e sociale, il sistema non ha retto, perché non aveva e non ha basi strutturali per perpetuarsi, siamo rimasti come le cicale al sopraggiungere dell’inverno, senza scorte e senza protezione, ora la festa e finita e si fanno i conti.

Quale può essere la risposta a questa situazione? Certo non i tagli indiscriminati e l’aumento delle tasse e delle imposte per i redditi da lavoro e da pensione, in questo senso gli effetti della manovra che si è varata possono essere devastanti per le condizioni di vita già precarizzate di numerose famiglie.

Penso che occorra un piano straordinario di riconversione produttiva, verso una società più attenta all’ecologia, alla produzione di beni intermedi in grado di soddisfare un’economia qualitativamente più forte nell’innovazione e nella ricerca, faccio un esempio: è possibile che con la crisi dell’auto, con il prezzo della benzina alle stelle, con le strade delle città intasate e intossicate dallo smog, si debba ancora puntare su questo modello di trasporto e non invece sviluppare una rete di trasporti collettivi, ecologicamente sostenibile, forte ed efficiente?

Che cosa costa di più al debito pubblico, il disavanzo da colmare dei bilanci delle aziende di trasporto locale, o il costo sulle famiglie del trasporto in automobile, con il carico d’inquinamento, d’incidentalità e quindi con spese per la collettività molto più ampie e di lungo temine? Non si può proseguire a fare i conti di ogni scelta, senza valutare le implicazioni che determina in termini più generali e d’interesse pubblico.

Quanto costa di più in un bilancio del benessere complessivo, una società di persone attaccata al televisore, individualizzata e alienata o una vita culturale ricca e partecipata nelle città, nei quartieri, nelle scuole?

Com’è più produttivo impegnare i (pochi) soldi, da destinare alle opere pubbliche, per creare infrastrutture pletoriche e magari inutili oppure dar da lavoro alle imprese per risanare il dissesto delle nostre montagne, per riqualificare il tessuto urbano, per adeguare il patrimonio edilizio agli standard di risparmio energetico?

Potrei continuare a lungo con altri esempi e spero che altri lo facciano, però è in rinviabile un’iniziativa politica delle forze del progresso che ponga il tema della crisi e del suo superamento con una capacità del tutto nuova di proporre un cambiamento vero non più rinviabile.

Il Fatto Quotidiano

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