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05 dicembre 2011

Grandi opere: resta la voglia di cemento

Le grandi opere hanno tempi di realizzazione molto lunghi e vita tecnica lunghissima. Poi, per definizione, costano ciascuna botte di molti miliardi di euro (quando non decine di miliardi, soprattutto a consuntivo …). Lo Stato non ha certo più i soldi per finanziarle “pronta cassa”. Qui interviene allora il soccorso delle grandi banche, che, bontà loro, si precipitano a finanziarle. Ora, le banche sono intermediari, e guadagnano giustamente in percentuale di quanti soldi girano, e per quanto tempo girano. Poi, ancora giustamente, non vogliono correre rischi di perdere i soldi dei loro clienti, grandi e piccoli. Quindi se i ricavi da parte degli utenti sono pochi o rischiosi o nulli, lo Stato deve garantirli. Quale affare migliore, soprattutto quando sono in grandi difficoltà, di operazioni finanziarie di questo tipo? Da qui una pressione politica fortissima e un totale disinteresse sull’utilità, o anche solo la priorità di queste opere: più sono e più costano meglio è. Se si ripagheranno in tutto o in parte, come le autostrade o gli aeroporti, bene, ma se alla fine pagherà tutto lo Stato, come le opere ferroviarie, bene lo stesso. Meglio per l’immagine dell’opera se vi saranno meccanismi di “finanza creativa” che le metteranno formalmente a carico di imprese pubbliche, come Anas o Fs, con operazioni note come project financing, spesso di sola facciata.

Da qui il fortissimo conflitto di interessi “culturale”, se non necessariamente individuale, tra banchieri e scelte di investimento pubblico (ma come distinguere i due tipi di conflitto? La materia è appiccicosa, anche le banche sono grandi imprese nazionali che vanno aiutate, ecc.). Ai banchieri nelle nomine recenti di Monti andavano almeno affiancati tecnici di provata competenza e indipendenza. Perché non bisogna dimenticare che un’opera inutile fa contenti quasi tutti: imprese di costruzione, banche, politici che le promuovono e regioni che la chiedono a gran voce (un patetico coro di polemiche è sorto recentemente tra Campania, Veneto, Liguria e Piemonte, al grido di “la mia opera è meno inutile della tua”, con annesse fumosità sui mirabolanti e irrinunciabili effetti di sviluppo di lungo termine, fantomatiche priorità e soldi europei, ecc.). L’opera inutile, o atrocemente sottoutilizzata come la Av Milano-Torino, non fa crescere l’economia come altri tipi di spesa, come le piccole opere e le manutenzioni, ma qui le banche non avrebbero alcun ruolo. Le grandi opere sono infatti “ad alta intensità di capitale” e proprio per questo le banche hanno un grande ruolo, mica come sistemare le strade rotte e pericolose, o migliorare i servizi per i pendolari (su ferro, bus e strada)… Il fatto poi che gli utenti siano disposti a pagare l’infrastruttura per le strade e non per le ferrovie di lunga distanza dovrebbe far riflettere qualcuno sugli effetti di sviluppo dei due tipi di trasporto. Questo, si badi, non è un capriccio degli utenti, famiglie e industrie, ha solide ragioni funzionali e territoriali, su cui ora qui non possiamo dilungarci.

E la questione adesso è diventata gravissima, perché oggi buttare soldi pubblici sarebbe immensamente più colpevole che dieci anni fa, quando questi erano meno scarsi. Ma il Cipe si accinge serenamente a finanziare un’altra tranche del terzo valico ferroviario tra Milano e Genova, senza che neppure sia noto il piano finanziario dell’opera (cioè non è noto neppure il banalissimo rapporto costi-ricavi, per non parlare del rapporto costi-benefici sociali). Tra l’altro non è certo nemmeno che con i chiari di luna che ci sono, l’opera sarà mai finita (non c’è un meccanismo finanziario “blindato”, anzi, c’è la concreta possibilità che si aprano molti altri cantieri con la stessa logica, aumentando così il rischio di opere che non finiranno mai). Questo “terzo valico ferroviario” costerà almeno 6 miliardi, e l’ing. Moretti, Ad di Fs, ha dichiarato più volte che è inutile, con qualche coraggio civile, essendo lui il recettore diretto di quei soldi. Una seria “spending review” delle grandi opere berlusconiane sembra davvero urgentissima. L’economista Keynes diceva che in tempi di recessione sarebbe andato bene anche “scavar buche e riempirle”, perché gli operai avrebbero speso rapidamente i loro stipendi, rimettendo in moto l’economia. Ma certo a vedere questo, e altri, inutili buchi fatti quasi interamente a macchina sotto le montagne sarebbe certamente inorridito. Agli operai, che sono per nostra fortuna spendaccioni, infatti andranno solo le briciole, e in tempi lunghi.

Marco Ponti
Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2011

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