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24 giugno 2010

Sul diritto di sciopero e il caso Pomigliano

Il 22 giugno Sergio Bologna scriveva una breve lettera al Manifesto intorno alla questione del diritto di sciopero.

Com’è bello sentire il cuore del «popolo di sinistra» pulsare così forte per gli operai di Pomigliano, inalberare ancora la bandiera dell’art. 1 della Costituzione, ergere il petto contro gli attacchi al diritto di sciopero! Che spettacolo di virtù civiche e di democrazia! Poi ci viene un dubbio: ma dove cazzo eravate in questi ultimi quindici anni? Davanti ai videogiochi? Non vi siete accorti che il diritto di sciopero non esiste di fatto per più di un milione (1.000.000) di precari e di lavoratori autonomi da un bel po’ di tempo?

Quelle migliaia di giovani laureati che lavorano gratis nei cosiddetti tirocinii, hanno diritto di sciopero quelli? Messi insieme fanno dieci Pomigliano. C’è un’intera generazione che è cresciuta senza conoscere diritto di sciopero, né cassa integrazione, né sussidio di disoccupazione, niente. «Bamboccioni» li ha chiamati un ministro (di centro-sinistra ovviamente). Ma tornate davanti alla tele a guardarvi Santoro! Raccontatevi barzellette su Berlusconi, leggetevi Repubblica come la Bibbia, che altro in difesa della democrazia e del lavoro non sapete fare!

Sergio Bologna
23 / 6 / 2010
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In Nazione Indiana ed anche sul Manifesto si è aperta la discussione con vari interventi.

Ecco la risposta di Sergio Bologna pubblicata in Nazione Indiana.

Nota di effeffe
Dopo il primo commento di Jacopo Galimberti ho chiesto a Sergio Bologna di accettare la sfida con una replica. Quella che segue è la risposta alla domanda : Come si fa a difendere la democrazia?

La domanda avrebbe dovuto essere più difficile. Come si fa a difendere (ormai) la dignità del lavoro? Il nodo infatti sta tutto qui. La storia della democrazia occidentale ha due passaggi: quello delle libertà (di opinione, di associazione, di religione ecc. ecc.) e quello della sicurezza sociale. Il primo viene dalla Rivoluzione francese, il secondo dall’affermazione del movimento operaio e sindacale. Il primo è costato un sacco di morti, il secondo forse molto di più, ma in genere morti silenziose. Milioni di donne e di uomini che hanno rischiato la vita, la miseria, la galera, il licenziamento per essere rispettati sul luogo di lavoro ed avere dallo stato un sistema previdenziale e assistenziale, il cosiddetto “modello sociale europeo”. L’azione quotidiana di quei milioni di persone ha creato case del popolo, cooperative, scuole professionali, asili nido, ambulatori – insomma una specie di società parallela che viveva “separata” e con minimi livelli di autosufficienza dalla società in generale. Ha posto per prima il problema dell’eguaglianza femminile, ha combattuto l’alcolismo, ha guardato con rispetto ed interesse agli altri popoli (che conosceva, perché era costretta ad emigrare), ha condotto la lotta antifascista. Ed ha capito una cosa fondamentale che la cultura borghese non vuole capire: un diritto vale quando esiste nei fatti non quando è scritto sulla carta di una qualche costituzione. E’ una diversa concezione della democrazia, quella sostanziale contrapposta all’idea formale di democrazia. Di questa parlo io. Se non ci mettiamo d’accordo sui termini, è difficile capirsi. Nell’Italia del secondo dopoguerra questa forma di democrazia era forse la più solida d’Europa, grazie anche ai comunisti, ai socialisti, ai cattolici di base, a tutti coloro che avevano imparato queste cose sul luogo di lavoro.

Questo immenso patrimonio è andato disperso, in parte anche per scelte politiche precise: si pensi al XIX Congresso del PCI, artefice l’attuale Presidente della Repubblica, più ancora che Occhetto, che ha buttato a mare come roba vecchia il partito di massa per scegliere il toyotista lean party (“è come se si fossero licenziati su due piedi 800.000 militanti”, disse una volta una compagna che aveva fatto la Resistenza). Si pensi all’ondata di privatizzazioni, che hanno consegnato nelle mani di qualche avventuriero della finanza enormi patrimoni economici pubblici (e l’operazione “Mani Pulite” che avrebbe dovuto colpire la corruzione, in realtà ha dato una mano a questo trasferimento di ricchezza dal pubblico al privato). Ma questo è il meno, dopo tutto, il partito di massa era formula vecchia e l’economia pubblica era saccheggiata dai partiti di maggioranza.

Là dove la democrazia sostanziale italiana muore, là dove c’è il vero passaggio di civiltà, la vera tragica svolta epocale, è nella flessibilizzazione del lavoro. E’ lì che vengono erosi nei fatti diritti che sulla carta esistono ancora. Le imprese si frammentano e così si arriva ad oggi dove il 52% della forza lavoro dipendente non gode delle tutele dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori perché il numero degli addetti è inferiore alla soglia dei 15. Gli accordi sindacali del luglio 1993 garantiscono tregua salariale e di fatto spengono le lotte operaie (chi è andato in queste settimane a parlare con gli operai delle fabbriche occupate o presidiate dai lavoratori, ha trovato fabbriche che non scioperavano da 16 anni). E’ cambiata la struttura tecnica dell’impresa, lo stile di management, il lavoro sempre più precario, l’impossibilità dei giovani d’inserirsi…si potrebbe continuare all’infinito (la globalizzazione ecc. ecc.). Tutte cose considerate “minori”, che non fanno notizia, quotidiane, ma è qui che la democrazia sostanziale muore e attraverso le quali si perdono anche libertà civili (di recente ho scoperto che esistono contratti che prevedono il licenziamento per il dipendente che “confessa” a un suo collega quanto percepisce di salario). E’ sul rapporto di lavoro che l’uomo perde la sua dignità, quando si accetta come normale e persino lodevole che giovani, soprattutto laureati, lavorino per mesi gratuitamente in cosiddetti tirocinii con la speranza di essere assunti (ma perché mai se ci sono altri mille pronti a prendere il loro posto gratis?). E’ qui che muore la democrazia, è qui che sta morendo il diritto di sciopero, anche se nessuno lo ha tolto dalla carta costituzionale. Muore nei fatti. Ma su questo si tace, lo si considera un’evoluzione fisiologica dei modi di produzione. L’attenzione è posta su intercettazioni, conflitti d’interesse, mafie, il protagonista della società, la grande speranza è il magistrato, figura che assume il ruolo del demiurgo, del liberatore dal Male. Ne risulta distorta la stessa funzione della magistratura, prevista dai principi della democrazia borghese. La magistratura non deve sostituirsi all’azione politica. Ma la politica, la vera politica, è quella praticata dalla società, non dai partiti, dai milioni di uomini e di donne che giorno per giorno cercano di rendere più civile l’ambiente in cui vivono, più giusta la relazione tra persone, di quelli che non fanno alcun atto di eroismo né alcun gesto da prima pagina. Come può la magistratura dare un supporto a queste mille azioni quotidiane? Su questo microcosmo è impotente (e forse disinteressata). Molte di queste pratiche sociali – unico baluardo di una democrazia sostanziale – sono note. Ma rimane ancora da capire come si fa a rovesciare il degrado dei rapporti di lavoro. Gli stessi giuslavoristi affermano che non è più questione di produzione legislativa ma di contrattazione. Come si fa a inculcare nei giovani la volontà di ribellarsi a questo, come si fa a trovare nuove tecniche di autotutela e di negoziato con le gerarchie aziendali? Queste sono le domande centrali. Ci sono riusciti operaie e operai analfabeti, che vivevano in condizioni miserabili, ci hanno messo mezzo secolo (dalle prime società di mutuo soccorso ai primi sindacati industriali). Perché non dovrebbero riuscirci milioni di giovani scolarizzati, overeducated? Chi non è d’accordo con il mio piccolo sfogo forse ha un’idea della democrazia del tutto diversa dalla mia, ritiene più urgenti certe battaglie di altre, considera “un male minore” quelle che per me sono vere tragedie della civiltà. Si tratta di punti di vista, ma come faccio a rinunciare al mio, se su quello ho costruito 50 anni di presenza nella società e di comportamento privato?

Sergio Bologna*


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