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24 ottobre 2010

Un ciclo di lotte ambientali

273 volte no
Linee comuni della resistenza alla grandi opere ed all'occupazione ambientale

273 è un numero davvero significativo. E' il totale ad oggi delle contestazioni ambientali nei primi nove mesi del 2010.

Vengono conteggiate algebricamente e con lo stesso peso i sit in, i cortei, i picchetti, insomma, le iniziative di resistenza attiva contro la cosiddette “opere di interesse pubblico a carattere ambientale”.

Da Trento a Messina, da Susa a Vicenza, da Civitavecchia a Terzigno, ma anche Termoli, Crotone e moltissimo Veneto/Lombardia/Emilia: un arcipelago di comunità locali dice che centrali idro & termo-elettriche, rigassificatori & termovalorizzatori, discariche, stretti- ponti e basi militari sono occupazioni non democratiche -e centraliste- del territorio, opere della colonizzazione ambientale ed episodi utili solo al trasferimento di denaro dalla fiscalità generale alla tasca privata – più o meno mafiosa.

Vi è un'omogeneità soggettiva tra le sacrosante proteste che, dal basso e dappertutto, stanno resistendo alla devastazione ambientale ed a me pare emerga un idem sentire articolabile su tre caposaldi.

Il primo. Le opere in oggetto vengono immediatamente rifiutate perchè caratterizzate dal bilancio ambientale negativo. Insomma, devastano ed inquinano. Peggiorano la qualità della vita. Le parole stanno a zero da questo punto di vista. Nelle lotte si è maturato un grande saper dire critico che ha permesso alle comunità di autoformarsi e di contrastare i dispositivi di sapere -e quindi potere- degli esperti del governo e dell'accademia. Si badi che, probabilmente, una così ampia riappropriazione del sapere si ebbe solo con il cliclo di lotte per la salute in fabbrica che portò, poi e tra le altre cose, alla nascita della Medicina del lavoro.

Il secondo. Anche nei territori “economicamente più depressi” viene rifiutato il keynesismo della grande opera pubblica. Chi promette occupazione e redistribuzione della ricchezza non è più creduto, è sbugiardato dai precedenti casi -troppo numerosi per essere citati. Analogamente, non funziona più la corruzione dei "pacchetti di compensazione territoriale" il cui effetto è di saldare il debito che un'opera di utilità generale contrae con il territorio impattato.

Il terzo. In tutte le piazze della contestazione si pone radicalmente il problema della democrazia, laddove essa è intesa, vissuta, reclamata come diritto a poter decidere del futuro del proprio territorio. Alcuni editorialisti etichettano questa tensione con la sindrome nimby, ma questa è banalizzazione. Non ho mai ascoltato né letto di atteggiamenti egoistici, razzisti, privatistici: la verità è che, invece, si è reclamato – e ci si è tumultuosamente scontrati- contro il processo di astrazione del diritto di decisione sulla propria vita, si è abolita la delega amministrativa chiedendo – e quasi sempre ottenendo- che i sindaci eletti fossero interni alla lotta, che il federalismo non sia un fantoccio elettorale, ma un processo reale di riconquista della sovranità.

A noi pare, infine, che ci sia un ultimo punto la cui osservazione è utile a tutt* noi. La pratica delle lotte è decisa quasi sempre comunitariamente e valorizzata in relazione all'efficacia che produce. Non è poco e davvero questo rappresenta un importante segno di maturità.

Da qualche anno in Italia è comparso un nuovo ciclo di lotte, esteso per consenso, diffuso molecolarmente, capace di resistere, ma anche di preludere politicamente ad una differente uscita dalla crisi economica ed ambientale. 273 volte connettiamoci. Qualche volta il comune è già tra noi.


di Gmdp
24 / 10 / 2010

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