Antonio Pergolizzi
Una sentenza del Tribunale di Venezia, quella di ieri, che è un urlo liberatorio. Ben undici condanne in primo grado per un totale di quarant’anni di reclusione. E un milione di euro di provvisionale come anticipo del risarcimento per i danni ambientali provocati, danni che verranno quantificati in sede civile, per una delle tante inchieste venete contro i trafficanti di veleni. A queste vanno aggiunte altre dieci persone già condannate in precedenza con rito abbreviato, sempre nella stessa inchiesta.
Una bella notizia per l’ambiente, una delle poche, che premia chi ogni giorno lotta contro la criminalità ambientale e punisce chi si arricchisce sulla pelle degli altri. Era il 22 febbraio 2005 quando la procura di Venezia, coordinata dal pm Giorgio Gava, in collaborazione con il Nucleo investigativo di polizia ambientale e forestale di Treviso del Corpo forestale dello Stato, rendeva pubblica l’inchiesta denominata “Mercanti di rifiuti”. Gli investigatori capirono subito, sin dai primi riscontri, che si trattava di un grosso affare che vedeva coinvolte numerose ditte e tanti imprenditori. Tutti del Nord Italia.
Le indagini rivelarono un esempio da manuale di traffico illecito di rifiuti pericolosi. A capo del giro illegale c’era la ditta C & C, già in precedenza finita sotto le lenti dei forestali «in relazione alla gestione illecita di partite di rifiuti», come si legge nella memoria requisitoria del pm. Non era nuova del “mestiere”, insomma. In sostanza, infilavano tonnellate di rifiuti tossici nell’impasto per i sottofondi stradali, cavalcavia, strade, autostrade e, in genere, nei cantieri dell’Alta velocità in Veneto e in Emilia Romagna: la classica ricetta eco mafiosa per risparmiare i costi sullo smaltimento, incuranti di avvelenare le falde acquifere, i terreni e soprattutto i cittadini. In questo modo, non solo si occultavano i rifiuti, ma si producevano conglomerati a costi bassi, anche se altamente tossici.
L’inchiesta portò al sequestro di un cavalcavia a Padova e di un tratto della nascente linea dell’Alta velocità delle Ferrovie dello Stato. Il tutto ebbe inizio nel giugno del 2004, quando una pattuglia della Polizia stradale, preventivamente allertata dal Nipaf di Treviso del Corpo forestale dello Stato, «intercettava - si legge sempre nella memoria - un automezzo della ditta Matteazzi srl proveniente dall’impianto della C & C di Pernumia e diretto in località Arino del Comune di Dolo dove erano in corso lavori per la realizzazione della tratta Venezia - Padova della linea ferroviaria di alta capacità: il materiale trasportato, definito “Conglocem tipo R” e viaggian te senza formulario, presentava caratteristiche visive tutt’altro che uniformi, assumendo le sembianze di un vero e proprio miscuglio di rifiuti, era polverulento ed emanava un forte odore di ammoniaca».
Il materiale veniva poi sottoposto a campionamento, non detenendo l’apparenza di alcuna di quelle materie prime che possono scaturire dal recupero dei rifiuti. I risultati di laboratorio avrebbero dato ragione agli inquirenti: in quel conglomerato c’erano più “monnezza” che cemento. O come si legge in una intercettazione telefonica: «E tutto è perché non ci butta neanche il 14 per cento di cemento dentro». La sentenza è arrivata al termine di un processo celebrato a tempo record, con udienze celebrate anche nella pausa feriale per evitare la prescrizione dei reati. Gli 11 imputati condannati dovranno inoltre pagare le spese legali sostenute dalle parti civili, fra cui il ministero dell’Ambiente, la Regione Veneto, gli enti locali e le associazioni ambientaliste.
Terra News 12-09-09
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Sotto la neve pane. Sotto il cemento fame!