In un Veneto già crivellato da oltre 570 cave sta
prendendo vita una nuova grande area di scavo. È il cantiere delle
Pedemontana, che di fatto diventerà un enorme bacino da cui sarà
possibile asportare, riutilizzare, trasformare e mettere in commercio
qualcosa come 9 milioni di metri cubi di materiali, soprattutto sabbie e
ghiaie.
L’allarme è stato lanciato in questi giorni dai comitati del gruppo Difesa Salute Territorio che seguono da vicino il cantiere della nuova super strada nei comuni dell’alto vicentino dove sono partiti i lavori. Foto alla mano, dove si notano montagne di ghiaia e scavi profondi svariati metri (sono i tratti in cui la strada passerà in trincea), i comitati osservano come lo scavo in profondità permetta un maggior accumulo di ghiaia ed interrompa “lo strato di argilla che è il filtro per le sostanze inquinanti”. E si chiedono: “Come mai si scava tanto in profondità proprio nei punti dove la falda è più a rischio? Forse perché sono i punti in cui la ghiaia è presente in grande quantità ed è di ottima qualità? Nel progetto definitivo del tratto Breganze – Marostica viene evidenziato che su 60 km di autostrada in trincea ben 35 sono a rischio idraulico e per circa 3,5 km si andrà ad interferire con la falda freatica, con il manto stradale che di fatto si troverà al di sotto del livello dell’acqua”.
La risposta ai quesiti si trova in una deliberazione della giunta regionale, la n. 1886 dello scorso 18 settembre intitolata “Superstrada Pedemontana Veneta: gestione e utilizzo dei materiali di scavo”. Lì si legge che “secondo i dati contenuti nel Progetto Definitivo, la realizzazione dell’infrastruttura in argomento prevede un esubero complessivo di materiale di circa 13 milioni di metri cubi nell’arco di 5 anni, derivante dalle opere di scavo sia in galleria che in trincea, dei quali circa 9 milioni di m.c. di materiale inerte utilizzabile industrialmente e costituito in prevalenza da sabbie e ghiaie”.
Un volume che, come dichiara la stessa delibera, ha un impatto notevole sulla tutela del territorio, incide sulle attività del settore estrattivo andando a soddisfare una parte dei bisogni regionali, e costituisce di fatto “una fonte di materiale alternativa alle cave che consente di contenere lo sfruttamento del territorio”. Ecco perché la delibera autorizza, ad esempio, che sabbie e ghiaie estratte dal cantiere possano essere reimpiegate nel cantiere della Pedemontana, commercializzate, oppure stoccate in cave non estinte in attesa di essere lavorate o messe in vendita. Con alcuni dettagli da sottolineare: a differenza di quanto avviene con le cave vere e proprie, in cui chi estrae deve versare un contributo al Comune per ogni metro cubo di materiale, in questo caso i Comuni non vedranno un centesimo. Per il materiale che viene stoccato in cava, infatti, l’articolo 4/d della delibera dice che “non è dovuto al Comune il contributo di cui all’articolo 20 della L.R. n° 44/82”. E subito dopo aggiunge che lo stoccaggio in cava può essere la causa di una proroga dei tempi di sfruttamento di quella cava.
In pratica, per evitare l’apertura di nuove cave, si considera il cantiere stradale come un’enorme scavo da 9 milioni di metri cubi. Senza il pagamento dei contributi ai Comuni, che saranno un meccanismo perverso (molte amministrazioni sono favorevoli alle cave proprio per questo) ma almeno hanno una ricaduta diretta sulle finanze pubbliche. E con il risultato di prolungare ancora l’attività delle cave esistenti. Il tutto, ovviamente, per salvaguardare il territorio.
Il punto che mette in crisi tutto il discorso e lo svela per quello che è – cioè l’ennesima concessione al mondo dei cavatori in una regione in cui da trent’anni non si approva un vero piano cave, e in cui dal 1982 si continua con un regime transitorio che di fatto è dominato dal laissez faire – è che non c’è in vista alcuna reale limitazione delle altre attività estrattive. Anzi. Nonostante con le autorizzazioni già concesse si possa continuare a scavare per anni, e in alcuni casi per decenni; e nonostante la crisi abbia bloccato l’edilizia e messo in crisi molte ditte del settore, le richieste di ampliamento e di nuove concessioni continuano ad arrivare. E ad essere approvate. Con un meccanismo molto vicino a quello della speculazione fondiaria tradizionale: per chi investe, avere un terreno in cui è possibile scavare è un plusvalore, una rendita per il futuro, esattamente come un terreno agricolo reso edificabile.
Infatti, i comitati segnalano che la pressione del settore delle attività estrattive è ben lungi dal diminuire. Rispetto ad alcuni anni fa, la situazione è perfino peggiorata. Nella zona dei Berici, dove si trovano alcune delle cave più grandi della provincia, le elezioni svoltesi negli ultimi anni hanno premiato spesso amministrazioni più morbide nei confronti dei nuovi progetti di escavazione. E il parere dei Comuni, per quanto non vincolante, ha un peso decisivo nell’orientare le scelte degli organi regionali che poi concedono le autorizzazioni. Così ad Albettone sta andando avanti il progetto per l’apertura di una nuova cava sul Monte San Giorgio (250 ettari e 4,5 milioni di mc). A Barbarano c’è sempre in sospeso la possibile apertura della cava di Monticello. E ampliamenti, proroghe o progetti di nuove estrazioni di vario tipo sono in corso anche ad Alonte, Villaga e Sarego, dove la prima amministrazione grillina della provincia non ha ancora preso in mano seriamente il caso della miniera. «Con i vincoli sempre più rigidi imposti dal patto di stabilità e dai tagli statali, c’è il rischio che i comuni siano sempre più attratti dai soldi facili che arrivano dalle attività estrattive, e si torni a vendere il territorio», commenta Francois Bruzzo, voce storica dei comitati del Basso Vicentino.
Dall’altro lato della provincia, in Valsugana, la situazione è analoga. La colossale cava di Carpané continuerà a lavorare per decenni, e con il pretesto della messa in sicurezza si continua ad asportare materiale dalle montagne attorno a Cismon e San Nazario. Il comitato che negli anni scorsi si era attivato per monitorare la situazione ha mollato la presa, e il groviera continua ad avanzare nell’indifferenza generale.
I dati ufficiali fotografano in realtà una situazione più sfumata. In provincia le cave attive sono circa 210, e negli ultimi 3 anni si sono registrate 18 chiusure a fronte di due ”sole” nuove aperture. Di pari passo, anche i volumi estratti sono tendenzialmente in calo. Ma è troppo poco per segnare un’inversione di tendenza. Caso mai è vero il contrario: i comitati si ritrovano sempre più soli, i cavatori non arretrano di un metro (cubo), e la politica, che a parole si spende per la salvaguardia del territorio, come sempre lascia fare.
Scritto da Luca Matteazzi
9 novembre 2012
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